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di Maria Elisa SARTOR*

ABSTRACT

L’articolo analizza le radici profonde e trasversali del progetto di autonomia differenziata in Lombardia, dimostrando come esso non sia riconducibile esclusivamente alla Lega ma rappresenti la convergenza di due faglie culturali e politiche che minacciano l’unità nazionale. La prima faglia, di matrice leghista, è identitaria, separatista e anti-metropolitana, nata negli anni ’80 dall’affermazione politica dei ceti produttivi delle valli prealpine. La seconda, più economico-tecnicistica e neoliberista, emerge dagli anni ’90 e si fonda sull’orgoglio lombardo come soggetto innovatore e modernizzatore, con forti connotati espansivi e colonizzatori. Queste due correnti si sono fuse producendo uno Statuto d’Autonomia regionale approvato trasversalmente nel 2006 e sostenuto dalle élites imprenditoriali, accademiche e politiche regionali. L’autrice dimostra che l’autonomia differenziata in sanità esiste di fatto in Lombardia dal 1995, molto prima della sua formalizzazione legislativa, manifestandosi attraverso un sistematico disallineamento dai vincoli nazionali del SSN e una progressiva privatizzazione del Servizio Sanitario Regionale. Le “innovazioni” lombarde includono: la riconfigurazione organizzativa del SSR con l’introduzione delle ASST; la promozione del pilastro assicurativo nel finanziamento; lo sbilanciamento verso l’offerta privata; l’ibridazione del sistema universitario pubblico con le università private di Medicina; la concentrazione della ricerca negli IRCCS privati. Particolare attenzione viene dedicata al ruolo di Confindustria, guidata da imprenditori del settore sociosanitario, e del Cergas-SDA Bocconi, accusato di essere il principale promotore ideologico e operativo della privatizzazione sanitaria attraverso la formazione manageriale, la consulenza e la diffusione del New Public Management. L’articolo conclude che l’autonomia differenziata rappresenta il tentativo di consolidare e rendere irreversibile un processo di privatizzazione già ampiamente realizzato, creando uno “stato-regione” del Nord libero da vincoli nazionali e orientato esclusivamente alla logica di mercato.

PAROLE CHIAVE

  1. Autonomia differenziata Lombardia
  2. Privatizzazione sanità lombarda
  3. Due faglie autonomismo
  4. Élites regionali trasversali
  5. Cergas-SDA Bocconi
  6. Confindustria settore sociosanitario
  7. Università medicina private
  8. IRCCS privati ricerca
  9. New Public Management
  10. Disallineamento vincoli nazionali SSN

“Il progetto di autonomia differenziata, che in Lombardia va attribuito alle élites regionali in senso lato – e che non seduce la maggior parte dei cittadini – nasce dalla pericolosa fusione di due orgogli che siamo chiamati a contrastare”

ABSTRACT

In Lombardia non è solo la Lega ad essere autonomista. Altri attori e fattori sostengono il progetto di autonomia differenziata, non necessariamente quello proposto dalla Lega. Due ceppi di pensiero che corrispondono a due faglie che minacciano l’unità d’Italia hanno dato forza, fondendosi, all’attuale strategia autonomista del governo della Regione Lombardia. Uno identitario su basi culturali, separatista, anti metropolitano – non colonizzatore in origine. Uno autonomista su basi economiche neoliberiste, colonizzatore, trasversale a più soggetti politici. Due orgogli lombardi si combinano: uno in chiave leghista e l’altro in chiave di soggetto innovatore/modernizzatore nei settori della cultura, medicina, diritto, politica, economia aziendale, meccanica, scienze della vita, design, chimica, moda. Destra e sinistra si ibridano facendo leva sulla “lombardità” declinata nelle due versioni anzidette. Risultato: c’è un grande rassemblement trasversale, spesso sotterraneo. Ma soprattutto le élites di governo della regione hanno voluto fortemente ed esplicitamente prima l’autonomia (statuto regionale dell’autonomia) ed ora l’autonomia differenziata, anche se con soluzioni diverse. L’hanno imposta normativamente al Paese, mirando a spaccarlo, per continuare a diversificarsi dai territori regionali circostanti con l’intenzione di colonizzarli soprattutto economicamente, ma anche culturalmente. Quando si afferma di voler essere il motore per il Paese si intende sfruttare la propria posizione di consolidato vantaggio sul resto del Paese.

PAROLE CHIAVE

  1. Autonomia differenziata Lombardia
  2. Privatizzazione sanità lombarda
  3. Due faglie autonomismo
  4. Élites regionali trasversali
  5. Cergas-SDA Bocconi
  6. Confindustria settore sociosanitario
  7. Università medicina private
  8. IRCCS privati ricerca
  9. New Public Management
  10. Disallineamento vincoli nazionali SSN

PREMESSA

Cercherò di contribuire al dibattito sulla “autonomia differenziata” riferendomi soprattutto alla sanità lombarda così come è stata osservata in un regime di “differenziazione regionale ordinaria” derivante dalla normativa del 1992. Lo farò restando nell’ambito dei risultati di primo e di secondo livello della mia recente ricerca sul processo di trasformazione, in senso privatistico, del SSR della Lombardia. Vorrei mettere a fuoco questioni che tendono ad essere trascurate nel dibattito in corso. Risponderò essenzialmente a due quesiti.

Primo: Da che cosa si origina la richiesta di autonomia differenziata lombarda che sta spaccando il Paese? La Lega è il solo e/o il principale vero motore del processo? La forza realizzatrice della AD, che si è rinnovata recentemente, deriva solo da contingenze politiche dell’ultima ora? La mia tesi è che il progetto di autonomia differenziata lombardo (più o meno surrettiziamente) sia stato da tempo, e ancora per certi aspetti lo è, nella sostanza trasversale alle élites della regione: imprenditoriali, accademiche, politiche di governo e anche di opposizione.

Secondo: Cosa è successo alla sanità lombarda negli ultimi 30 anni? Può essere di aiuto alla comprensione del significato del progetto di autonomia differenziata in atto osservare come la sanità lombarda sia stata trasformata? Cosa aggiunge l’AD a quello che è stato già realizzato? E quali sono gli effetti per il resto del Paese? Anticipo subito la mia tesi. Le ragioni del progetto dell’autonomia differenziata in senso lato hanno le stesse radici delle trasformazioni che si sono avute nella sanità di questa regione. Le trasformazioni della sanità, occorse negli ultimi trent’anni, derivanti da scelte operate dai governi di centrodestra della Lombardia, sono il frutto della ricerca continua di sottrarsi ai vincoli nazionali del SSN che impedivano lo svilupparsi delle forze di mercato. Pur nell’alternanza dei governi nazionali, che ha generato via via un consistente allentamento di tali vincoli, le “aperture” nazionali al privato non consentivano di perseguire fino in fondo la finalità di liberalizzazione dei mercati. Per quanto riguarda l’erogazione dei servizi sociosanitari essa doveva essere il più possibile offerta dai privati (che premevano in questo senso e che, dal punto di vista del ceto politico, sarebbero stati utili all’allargamento del consenso). Al tempo stesso si intendeva dare un ruolo consistente alla intermediazione assicurativa e quindi ad un diverso mix nel finanziamento della spesa sanitaria. Anch’essa avrebbe favorito la privatizzazione dell’offerta sanitaria. Queste appena citate sono politiche tuttora attive che nessuno sta contrastando. In nome del SSN e in sua difesa andrebbero identificate e neutralizzate conoscendone le modalità concrete di realizzazione e ancora di più prevenendole. L’autonomia differenziata è una secessione dei ricchi – secondo Viesti – ed è anche un affondo neoliberale, aggiungerei.

In altre parole, l’autonomia “differenziata” della Lombardia in sanità c’è da tempo (anche se formalmente detta “ordinaria”). È già praticata di fatto da decenni, ancora prima del 2000, dal 1995, anno di insediamento di Formigoni. Solo che non si è voluta in generale percepire e considerare come tale per un consistente numero di motivi. Principalmente perché corrispondeva anche a una strategia trasversale di privatizzazione più sotterranea ma presente anche a livello nazionale ai vertici del SSN. E va aggiunto che le trasformazioni occorse nella sanità lombarda sono state il principale tradimento del SSN delle origini. Il tradimento è consistito nella privatizzazione incessante (autorizzando e accreditando sempre più privati) del Servizio sanitario della regione, anche se con ritmi di realizzazione diversi negli anni. E gli effetti di questa autonomia sanitaria ordinaria lombarda hanno da lungo tempo avuto un impatto sul Paese. Purtroppo un impatto non percepito a sufficienza dall’opinione pubblica per un’insufficiente e fuorviante informazione (le altre regioni sono rimaste all’interno dei vincoli dati dal quadro normativo nazionale più di quanto non abbia fatto la Lombardia).

Nell’illustrare più estesamente quanto ho solo anticipato, farò cenno anche alla cronologia che riguarda le tappe significative del processo di autonomia che hanno contrassegnato la vita istituzionale della Lombardia.

CHI SONO STATI – E SONO – I SUPPORTER DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA IN LOMBARDIA?

In Lombardia due idee di autonomia – con origini diverse – si sono fuse. Cosa intendo dire? A grandi linee sono due le correnti di pensiero/faglie che a mio avviso hanno portato al consolidarsi di una politica di autonomia in Lombardia. Una più identitaria e una più economico tecnicistica che ha recuperato solo in un secondo tempo elementi identitari (dai primi anni ’90 in poi). Gli elementi di queste culture si rintracciano nei comportamenti di attori diversi e nel loro discorso pubblico e sono stati registrati bene o male in ambito giornalistico ed accademico. Anche e soprattutto in occasione del referendum consultivo sull’autonomia in Lombardia del 2017.

Prima faglia. Vediamola un po’ più da vicino. Si ricerca l’autonomia regionale per affrancarsi da un supposto dominio culturale nazionale, statalista e romanocentrico. Questa spinta autonomista trova espressione in un partito: la Lega Nord, la Lega delle origini (anni ’80). Il senatore Calderoli ne ha fatto parte, ne era un esponente di rilievo. Ci si impegnava all’epoca per una affermazione culturale/politica di chi aveva già goduto di una affermazione economica: i ceti produttivi delle valli prealpine e della pianura, quindi non metropolitani, rimasti in ombra politicamente fino agli anni ’80. In origine, è una cultura separatista, che tende alla chiusura e non necessariamente esprime spinte colonizzatrici verso altri territori. Tende a chiudersi più che ad espandersi oltre i propri confini territoriali.

Seconda faglia. Si ricerca l’autonomia regionale in quanto ci si scopre, come regione, forti economicamente, i più forti del Paese. E nel contempo si constata, calcando un po’ la mano, che, come lombardi (nativi o di adozione) – storicamente – si è ampiamente data prova di un ingegno particolarmente innovatore che si è espresso negli ambiti più diversi.

Nella seconda parte degli anni ’90 e nei primi anni 2000 sono stata direttamente testimone di una intensa attività culturale che è sfociata in corsi di formazione politica in ambito universitario (università private) – extra curricolari ma con edizioni annuali – corsi tesi alla evidenziazione dei caratteri originali e storicamente significativi del contributo della cosiddetta “terra lombarda” alle grandi trasformazioni del Paese. L’attività veniva organizzata da un gruppo di studiosi milanesi di ispirazione catto-socialista legati a figure che hanno fatto la storia istituzionale della regionalizzazione lombarda. Si trattava per lo più di imprenditori impegnati nelle istituzioni pubbliche: figura carismatica di riferimento, il primo presidente della Regione Lombardia, il democristiano Bassetti. Lo sforzo era di recuperare quegli elementi della storia che consentivano di identificare e di rivelare la vocazione dei lombardi ad essere innovatori in vari campi, e ad essere i “primi”.

Viene così messo un certo impegno a diffondere l’idea che i lombardi sono stati e sono innovatori in ambito giuridico, politico, medico, tecnologico-economico, finanziario, artistico. La prova che viene esibita? Idee innovative che sfociano, economicamente e produttivamente parlando, soprattutto in nuovi prodotti e servizi, nuovi settori, in nuovi processi trasformativi.

Fin dal suo nascere (ma non è facile stabilire una data; potremmo dire che si colloca a partire dagli anni ’80), questa corrente di pensiero è autonomista ed esprime anche una netta vocazione espansiva e “colonizzatrice”, che le deriva e viene a corroborarsi con lo sviluppo di una cultura decisamente mercatista che pervade ogni ambito della vita sociale a partire dagli anni ’80 e soprattutto ’90. Il mondo imprenditoriale, che è alla ribalta, diventa il modello anche in politica. Un autorevole studioso dei processi politici italiani ha affermato che “il politico stesso in Lombardia diventa imprenditore e il territorio azienda” (da un’intervista a Ilvo Diamanti del 1988). O, verrebbe da dire, il territorio viene a sfumare, proprio perché tutto è azienda e l’azienda non sopporta limiti di questo tipo.

Queste due faglie e/o correnti di pensiero hanno trovato punti di convergenza sostanziali negli anni ’90. Eccone un emblematico risultato. Dalla seconda metà degli anni 2000 la sostanziale convergenza delle due faglie ha consentito di produrre il nuovo Statuto d’Autonomia della Regione, che viene in sostanza appoggiato e celebrato trasversalmente agli schieramenti politico-partitici. Risulta votato da più dei due terzi del Consiglio regionale: 70 votanti, 61 favorevoli sugli 80 consiglieri totali (viene da chiedersi chi fossero i 10 consiglieri assenti).

La seconda corrente via via si è presa definitivamente la scena (anche internazionale) ed è divenuta egemonica anche in quanto sostenuta dalla principale associazione imprenditoriale – retta in questa fase, guarda caso, da imprenditori del sociosanitario “allargato”, diciamo così, che, in quanto vertici di Confindustria, sono anche collocati al vertice del sistema universitario di questa regione. L’università entra sempre più in gioco. La Lega Nord, anche per effetto di questa fusione, cambia nome e si conforma alla svolta.

Le attuali élites della regione – una consistente parte del mondo accademico (non tutto), l’imprenditoria in generale e dei nuovi settori economici, amministratori e politici di vari schieramenti – sono propense, da qualche decennio, ad appoggiare più o meno attivamente una linea politica autonomista.

L’idea di un’autonomia regionale in Lombardia si lega in qualche misura e viene rafforzata anche dal processo di europeizzazione del Paese. L’Unione europea per qualche tempo è stata interessata a dare ampio rilievo alle principali regioni dei Paesi membri nel tentativo di limitare il potere di pressione/condizionamento degli stessi Stati membri più forti. Le regioni forti di Germania, Francia, Italia e Spagna si sono quindi fatte avanti in Europa. Per l’Italia, la Lombardia. Ricordo una grande produzione di ricerche socio-economiche dirette a sostenere questa politica.

Ma altra cosa sono i cittadini lombardi, che non sono stati davvero così tanto affascinati da una prospettiva autonomista. Non almeno, pare, quanto i veneti, per le ragioni storiche che conosciamo (anche se qui va usata una certa cautela nell’esporre queste ipotesi interpretative). Questo minore investimento dei lombardi nella autonomia viene dimostrato per il passato – direi incontestabilmente – dai numeri della partecipazione al referendum lombardo dell’ottobre del 2017, referendum che richiedeva il consenso all’attuazione della strategia autonomista. Quello che conta, e che nello stesso tempo preoccupa, è che, se l’idea di autonomia non ha del tutto sedotto i lombardi non li ha nemmeno impensieriti al punto da indurli a contrastare l’avanzare del progetto fin dal suo sorgere. Ma quale forza politica di opposizione in Lombardia si è opposta con decisione alla prospettiva della autonomia regionale? Che si sappia, nessuna di quelle allora presenti in Consiglio regionale.

Va sfatata quindi l’idea che la ricerca dell’autonomia in Lombardia si sia originata solo in casa leghista. Anche se la Lega di oggi, diversa da quella delle origini, si presta ad essere il portatore del vessillo e si impegna a portare a casa la realizzazione del progetto per tutti gli altri sostenitori dell’autonomia, quelli meno esposti. Forte anche delle lezioni apprese in questi anni di protagonismo politico al governo del Paese. Lo fa per sé ma anche per procura. Va quindi fatta nostra l’idea di una volontà di autonomia regionale lombarda che si è fatta largo trasversalmente alle formazioni politiche come combinazione di due orgogli: uno identitario su basi culturali, separatista, anti metropolitano – non colonizzatore in origine; e uno autonomista su basi economiche neoliberiste, colonizzatore e trasversale ai soggetti politici. Insomma, l’orgoglio lombardo in chiave leghista si fonde con l’orgoglio lombardo in chiave di soggetto imprenditore/o più estesamente innovatore nei settori della cultura, medicina, diritto, politica, economia aziendale, meccanica, scienze della vita, design, chimica, moda.

Questa combinazione ha visto produrre un’iniziativa ampiamente convergente, non chiaramente definibile in termini di schieramenti partitici. Ex Socialisti, l’intera organizzazione di Comunione e Liberazione (che attualmente sembra non essere in toto autonomista), Forza Italia (in tutte le sue diverse denominazioni partitiche), il Partito dei pensionati e all’opposizione il PD e il M5S.

Anche il Partito democratico lombardo è stato portatore nella sostanza di una cultura autonomista (indeciso al referendum, contrario all’indizione del referendum ma non all’oggetto del quesito, oscillante e indeciso fra voto favorevole e astensione). Forse non è a tutti evidente, non ci si è prestata molta attenzione, ma basta scorrere la rassegna stampa, pre e post-referendum sull’autonomia regionale lombarda (del 2017, cioè circa 10 anni dopo l’approvazione dello Statuto d’autonomia regionale) per ricostruire il quadro delle posizioni.

Il PD lombardo è stato quindi portatore anche di un progetto di autonomia e ha cavalcato per quasi tre decenni l’idea di una Lombardia come regione forte, la più forte del Paese cui doveva spettare un ruolo trainante nei confronti della nazione. Ora il PD a livello nazionale è retto da una segretaria che ha contraddistinto la sua candidatura alla guida del partito proprio su una linea contraria al progetto autonomista. Ma ai vertici come alla base del PD si esprimono posizioni diversificate. Alcuni condividono la visione di qualche mese fa pro-autonomia di Bonaccini e altri sono ora nettamente contrari. Ma non è automatico che dirigenza e elettorato del PD lombardo si siano entrambi davvero convertiti a una visione di unità nazionale che comporti una uniformità di regole in tutto il Paese. In ogni caso in Lombardia sembrano prevalere ai vertici di questo partito gli autonomisti (che tuttavia non si dichiarano esplicitamente tali). In conclusione destra e sinistra fino a tempi molto recenti sono state difficilmente distinguibili con riferimento all’autonomia differenziata in Lombardia. Il M5S ora ha una netta linea anti-autonomista sia in Lombardia sia nel Paese.

LO STUDIO DEL PROCESSO DI TRASFORMAZIONE IN SENSO PRIVATISTICO DELLA SANITÀ LOMBARDA PUÒ CONSENTIRCI DI COMPRENDERE MEGLIO IL PROGETTO DI AUTONOMIA DIFFERENZIATA NEI SUOI POSSIBILI RISVOLTI IN SANITÀ

La differenziazione regionale ordinaria fra le sanità delle 21 regioni e province autonome, viene introdotta con l’attribuzione alle regioni della gestione della sanità a partire dal 1992. Ciò avviene in parallelo al processo di aziendalizzazione. Ma quello che va colto è che alla differenziazione prodotta dai Governi della Lombardia è spesso corrisposta la fuoriuscita da un quadro di riferimento nazionale, che avrebbe dovuto in ogni caso essere rispettato. Ciò accade fin dal 1995 – 1997, e trova un’espressione osservabile nelle modalità di ingresso dei privati nel SSR (detto semplicemente: non ci sono filtri all’ingresso che tutelino l’utente). In altre parole, l’autonomia differenziata è esistita in Lombardia per la sanità fin da allora. Regione Lombardia non si è conformata al resto del Paese, nel senso che non ha via via rispettato sempre il quadro normativo generale che avrebbero dovuto rispettare tutte le regioni. E dopo essersi illecitamente disallineata ha sempre cercato di fare scuola proprio su quegli aspetti che tendevano a rompere il quadro complessivo di omogeneità del SSN. La mia analisi mi ha portato alla seguente convinzione: per poter cogliere cosa avviene in sanità l’analisi deve oltrepassare i suoi confini più stretti. Come ho appreso nella attività di ricerca, Sanità, sistema universitario e ricerca sono inscindibili per un progetto di privatizzazione della sanità, che è al tempo stesso anche il piatto forte della autonomia differenziata di uno stato-regione del Nord, quale intende essere la Lombardia.

Ma allora, quali lezioni apprese in Lombardia riguardano la sanità? Non vorrei parlare dei tratti di differenziazione dal punto di vista delle disuguaglianze osservabili a valle e riferibili ai cittadini. Di questi aspetti parlano altri studiosi. Vorrei mettere l’accento piuttosto su quello che è accaduto nella regione che maggiormente si è disallineata rispetto al SSN delle origini e che da tempo fa scuola.

Lo schema di comportamento è questo: ci si proietta in avanti in terreni che non sarebbero consentiti dalla normativa vigente e, o lo si nasconde per quanto possibile, o, al contrario lo si esibisce, secondo le convenienze politiche, se le occasioni di pubblicizzazione vengono ritenute opportune in termini di ricadute future. E poi si opera per far sì che la “fuga in avanti” venga accettata/assorbita dal Paese e magari anche imitata (le aule universitarie della formazione manageriale diventano i canali maggiormente utilizzati per questi trasferimenti interregionali).

Quali sono le innovazioni lombarde “esportabili” che rispondono agli interessi di privatizzazione. Vediamole in sintesi:

  • Riconfigurazione organizzativa dei livelli istituzionali del SSR per la costruzione dei mercati: in Lombardia i livelli istituzionali sono 3 e nel resto del Paese sono 2: la principale novità che ha reso ancora più caotico il SSR lombardo, è infatti l’introduzione di organizzazioni di natura pubblicistica e territoriale, di sola erogazione, che svolgono assistenza ospedaliera e territoriale: le ASST, aziende sociosanitarie territoriali.
  • Riconfigurazione organizzativa delle organizzazioni base (ATS e ASST): la macro divisione del lavoro nel SSR risulta disallineata e non è stata corretta né dalla revisione della legge di riforma Maroni (LR 23/2015) né da parte della riforma Fontana-Moratti (LR 22/2021); se questa configurazione organizzativa venisse “esportata” verrebbero ad accentuarsi ovunque i problemi organizzativi, di gestione e lo spreco di risorse.
  • Promozione del pilastro assicurativo di finanziamento con estensione della spesa sanitaria privata: iniziativa individuale e in ragione del welfare aziendale che comprende polizze assicurative anche per gli enti pubblici; si veda il caso dell’ex direttore del welfare lombardo che diventa direttore della Statale e introduce le polizze sanitarie per i dipendenti dell’università.
  • Privatizzazione della offerta sociosanitaria: sbilanciamento spinto verso l’offerta di servizi privati.
  • Sistema universitario pubblico ibridato e formazione accademica prevalentemente erogata dai privati che godono anche di tariffe aumentate: esistono le università di Medicina e chirurgia private, ma anche le facoltà di Medicina e chirurgia statali hanno sedi negli ospedali privati; chi ha sedi accademiche diffonde il proprio punto di vista e, se si tratta di sede privata, rende naturale la presenza legittimata e autorevole del privato in sanità: il privato non è – e non sarà più – considerato come un “problema”.
  • Ricerca soprattutto in mano ai privati: molti ospedali della sanità privata sono stati promossi in IRCSS (prevalentemente dopo la riforma nazionale degli IRCCS del 2003). La gran parte della ricerca è stata collocata quindi negli IRCCS privati (in Lombardia sono il triplo degli IRCCS pubblici) e da questo fatto, con la Legge Regionale del 2010, sono stati iper-finanziati (le tariffe dei servizi erogati diventano sovra-tariffe). Tutta le ricerca universitaria in ambito sociosanitario è già orientata alle richieste del settore produttivo, essendo per lo più gestita dal settore produttivo privato, anche sociosanitario.

Tutte queste misure sono quasi sempre in discontinuità con i vincoli normativi nazionali.

In Lombardia, in sanità, ci pare sia già successo tutto quello che di significativo potrebbe accadere in termini di differenziazione all’interno del SSN. Lo si è fatto di nascosto ma anche “in bella vista”, alternando dissimulazione e fiera esibizione nei confronti del vertice nazionale dei comportamenti disallineati. Formigoni esibiva, in prevalenza, ma non comunicando del tutto le vere intenzioni finali; Maroni dissimulava dando da intendere che avrebbe modificato il SSR riequilibrandolo, cosa che non ha fatto; Fontana ha mostrato tutti i tipi di orientamento secondo le convenienze elettorali, mantenendo tuttavia nei fatti una linea decisamente pro privato e coerentemente in linea con quella dei suoi predecessori. Moratti, secondo assessore al welfare del governo Fontana (dopo Gallera), ha gestito la prima fase di progettazione della missione sanitaria del PNRR predisponendo l’orientamento degli investimenti e la sua proposta di riforma ha introdotto il principio di “equivalenza e di integrazione pubblico e privato”. E ora Bertolaso dimostra di essere in continuità con le politiche di sempre elargendo risorse ai privati per la soluzione del problema delle liste di attesa, che nella maggior parte dei casi sono proprio i privati stessi a creare.

In sintesi, la Lombardia si è contraddistinta mettendo in campo una pratica di impermeabilità dai condizionamenti nazionali, se non graditi. Ma non è già successo tutto quello che poteva accadere in Lombardia. Con l’introduzione della autonomia differenziata in sanità il quadro potrà anche peggiorare. Ecco come: regole del tutto nuove nella formazione e gestione e retribuzione del personale con norme autonomamente definite; tariffe dei servizi autodeterminate, politiche autonome dei farmaci, ulteriore privatizzazione del SSR ecc.

Chi ha un interesse diretto a che la autonomia di cui godrà la Lombardia si intensifichi in sanità? Sono i grandi gruppi della sanità privata, che hanno scelto di concentrarsi al Nord e che hanno di fatto gestito l’espandersi del loro potere – qui consolidatosi – in Italia e non solo, a partire da questa regione. Sono loro ad avere la necessità che il SSR non rispetti i principi originari del SSN e che quest’ultimo si frammenti. Uno dei modi di preservare questo odierno posizionamento di forza è di controllare e favorire il processo di autonomia differenziata della Lombardia e fare di tutto perché si implementi. Il risultato: avere a totale disposizione, a parità di orientamento politico di governo, un luogo sicuramente franco per ogni tipo di libera iniziativa.


BOX INFORMATIVO 1

CONFINDUSTRIA E UNIVERSITÀ NEI CONFRONTI DEL PROGETTO AUTONOMISTA

Gli ultimi due presidenti di Assolombarda che, secondo prassi, dopo il passaggio in Assolombarda sono divenuti presidenti di Confindustria, sono entrambi lombardi e direttamente coinvolti nel settore sociosanitario. Il primo, ora past president di Confindustria è impegnato nel settore biomedicale. Si tratta di Carlo Bonomi, Presidente di Synopo spa, Sidam srl, presidente del CDA di Ocean srl e Marsupium srl e consigliere indipendente di Springrowth SGR spa, presidente di Fiera di Milano spa, membro dei CDA della Fondazione Assolombarda, di Dulevo International spa e della Università Bocconi. Il suo predecessore nel ruolo di presidente di Confindustria, Gianfelice Rocca, è del gruppo Humanitas-Techint. Impegnato quindi nel settore della assistenza ospedaliera e territoriale, è proprietario del secondo gruppo privato italiano della sanità. Entrambi i presidenti di Confindustria hanno anche un considerevole peso nel settore dell’istruzione accademica legata al sociosanitario (sia clinico medico, sia per gli aspetti di management e di economia sanitaria). A quali università possono essere ricondotti direttamente? Alla Bocconi, per i settori di insegnamento e ricerca economico-manageriali (Bonomi e Rocca sono nel CDA), alla Università Statale di Milano per le facoltà di medicina e chirurgia e affini (Rocca). Per non parlare del fatto che l’Università degli Studi di Milano con riguardo agli insegnamenti rivolti alla sanità è egemonizzata da circa 10-15 anni dagli orientamenti della Bocconi, tramite un rimarchevole trasferimento di docenti/ricercatori del Cergas – SDA Bocconi nel dipartimento economico della facoltà di Scienze politiche, Economiche e Sociali e in alcuni dipartimenti di Medicina e chirurgia.

È noto quanto siano rilevanti i legami tra sanità e alta istruzione. In Lombardia il disallineamento del SSR con il resto del Paese non riguarda solo ciò che tradizionalmente è considerato sanità in senso stretto (per esempio, connesso ai livelli istituzionali e alle strutture di base del SSR). Le mire di disallineamento in sanità hanno comportato che venisse introdotta una riforma locale della università. Mi soffermo quindi sulle caratteristiche specifiche della Lombardia con riferimento all’università che serve il settore sociosanitario (spero che le ricerche si soffermino su questi aspetti, consentendo un confronto fra le regioni). Il processo di privatizzazione delle facoltà statali di medicina e chirurgia – in questo caso inteso come ibridazione con il privato – riguarda in realtà tutta la regione. Tornando all’Università statale di Milano, le cui sedi sono distribuite anche in alcune province della Lombardia, essa ha istituito un certo numero di proprie sedi di insegnamento nelle strutture cliniche della sanità privata. Queste ultime costituiscono nel 2017 -2018 la metà circa delle sedi di docenza e di ricerca della facoltà stessa. Ai privati è stato concesso anche di appropriarsi – e di esserne responsabili della rete – della assistenza clinica di grande complessità e rilevanza (interventi clinici “tempo dipendenti”); la formazione accademica che riguarda questi ultimi viene quindi effettuata nelle loro sedi. La scelta di dare rilievo al ruolo dei privati in determinati settori chiave – a titolo di esempio fra gli altri, la cardiochirurgia – fa sì che la struttura privata cui viene attribuita l’erogazione del servizio diventi poi sede anche del corrispondente insegnamento accademico. Ma il sistema accademico lombardo ha prodotto anche università di medicina e chirurgia private (o parti di esse), nate per iniziativa dei gruppi della sanità connessi ad Assolombarda, dopo che questi avevano ottenuto un fattivo aiuto dalle università statali della regione. Da queste ultime, le università private sono state letteralmente incubate (ossia aiutate a nascere e crescere). Nonostante ciò, la Lombardia non ha prodotto la migliore sanità del Paese, come ci ha ripetutamente fatto credere fin dai tempi del presidente Formigoni, che contava su studi effettuati da centri di ricerca amici. In realtà quando il monitoraggio e la valutazione si sono spostati dalla Lombardia all’ambito nazionale, il decantato 1^ posto della Lombardia è divenuto il 5^ posto, in particolare con riferimento alla garanzia dei LEA, cioè dei livelli essenziali di assistenza. Altro aspetto curioso, la sbandierata autonomia lombarda ha dovuto far ricorso alla consulenza di esperti e manager di altre regioni per un riassetto dei problemi evidenti nella sanità regionale: programmazione inesistente o quasi, prevenzione carente e infrastruttura territoriale pubblica insufficiente e mal gestita, in un contesto di “anarchia organizzativa”, come è lo stesso Assessore Bertolaso a dire in una intervista. L’eccessiva privatizzazione del SSR non è in genere colta come problema, mentre lo è, secondo il punto di vista del tutto condivisibile di Chiara Cordelli (Cordelli, 2022).


BOX INFORMATIVO 2

IL RUOLO DEL CERGAS-SDA BOCCONI NELLA DETERMINAZIONE DEL MODELLO DI SANITÀ IN LOMBARDIA E ALTROVE IN ITALIA

Inizio con il considerare le diverse vocazioni e i ruoli espletati dalla Bocconi con effetti sulla sanità: in generale influenza e traina il sistema universitario italiano in ambito economico e manageriale; determina la formazione manageriale degli operatori del settore sociosanitario italiano attraverso corsi e master; dirige, attraverso propri esponenti di vertice, le associazioni accademiche italiane di economia sanitaria e riveste un ruolo importante in quelle europee, condizionandone le linee di ricerca; dopo la conclusione della fase pandemica Covid-19, come istituzione accademica, monitora la risposta dei sistemi sanitari europei alle emergenze pandemiche (l’ex presidente del Consiglio Monti si fa affiancare dai ricercatori del Cergas-SDA nell’espletare il suo incarico per la UE); redige report per le grandi organizzazioni europee e internazionali (UE Commissione europea, WHO Europa; OECD, ecc.) contenenti dati e informazioni che descrivono il nostro SSN e le sue articolazioni; fornisce informazioni al sistema dei media; dà consulenze tecnico manageriali e redige proposte di modelli di organizzazione/gestione della sanità regionale e nazionale per i diversi schieramenti politici italiani e, per finire, risiede nel Consiglio superiore della sanità. Non c’è che dire: un potere esteso e crescente.

Il Cergas-SDA Bocconi, nato in occasione della istituzione del SSN italiano nel 1978, ha attraversato fasi di vita contrassegnate da orientamenti diversi. Dagli anni ’90 in poi, principalmente si è dato il compito di accompagnare la aziendalizzazione della sanità, istruendo i ruoli manageriali ai vertici della sanità pubblica e privata italiana, fondando riviste di settore (MECOSAN) e dal 2000 elaborando annualmente il Rapporto OASI con il quale ha influenzato il processo di aziendalizzazione e privatizzazione della sanità italiana fino ad oggi. Altre componenti del suo agire forse sono meno in evidenza. Vediamole. È al servizio dei suoi alumni, ossia dei top manager sparsi per il mondo interessati a far entrare nel settore sociosanitario italiano le aziende che essi stessi dirigono (vedi sito). Ha fornito i vertici delle società di consulenza filiali italiane delle Big Cons multinazionali di diverse generazioni di manager, le stesse consultancies che spingono il SSN e le sue articolazioni verso modelli sempre più privatizzati.

Il Cergas SDA Bocconi si potrebbe affermare che è il primo soggetto istituzionale ad essere di fatto per la equivalenza pubblico-privato, in quanto il suo business – che consiste in formazione, ricerca e consulenza – non può che crescere con la privatizzazione del settore.

Il suo apporto conoscitivo è di tipo prevalentemente prescrittivo (formazione tecnica legata alle mode manageriali che viene somministrata in direzione top down) e non pare interessato alla ricostruzione della realtà secondo un approccio sociologico descrittivo- indipendente, per ragioni che sembrano ovvie e che stanno nelle cose: l’ambito della sua ricerca/monitoraggio è anche quello da cui acquisisce commesse di consulenza.

Secondo la logica del New Public Management, la sua visione di che cosa sia il soggetto pubblico è illuminante per capire l’inadeguatezza del modello proposto per la continuità del SSN pubblico italiano. Non è solo – come dicono al Cergas – un problema di servizi che vanno commisurati al finanziamento (cosa di per sé che non rispetta la Costituzione), è piuttosto – si direbbe – un problema di frammentazione aziendalistica dei sottosistemi del SSR che dovrebbe essere condotto, secondo la Bocconi, dando potere decisionale sui servizi ai manager intermedi delle singole unità organizzative delle aziende sanitarie. Non è difficile osservare che ciò che viene suggerito risponde anche a un suo diretto interesse di business (i dirigenti intermedi sono numerosi e costituiscono il bacino ideale per la formazione gestionale).

Nel merito delle proposte del Cergas- Bocconi, lo stesso ente Regione in sanità non viene inteso come una articolazione politico amministrativa della Repubblica ma come una holding che controlla varie aziende. La Regione è vista quindi come la capogruppo di un qualsiasi gruppo aziendale preoccupato delle proprie performance e che deve via via rafforzarsi sul mercato. In sanità il Cergas-Bocconi ha diffuso l’idea di un posizionamento strategico della Regione Lombardia nel mercato internazionale e nazionale della sanità. E lo stesso vale per i livelli sottostanti della organizzazione regionale della sanità, sia pubblici che privati.

Il modello proposto dalla Bocconi in Sanità è improponibile sia con riferimento al dettato costituzionale sia rispetto allo Stato di diritto. Non a caso insegna ai manager di operare come se non esistessero vincoli normativi (vedi il rapporto OASI numero zero del 2000). Insomma non propone un modello che costituisca lo strumento più adatto alla tutela della salute del cittadino: l’iper-aziendalizzazione, la frammentazione, la ricerca di un posizionamento strategico di singolarità aziendali all’interno di un sistema; la responsabilizzazione dei vertici e dei manager intermedi nei confronti del razionamento dei servizi. Quello che vediamo in totale sofferenza (il SSN) è l’esito della applicazione di un modello iper-aziendalizzato. Sono stati considerati in prevalenza gli aspetti manageriali e gestionali per il funzionamento aziendalistico di aziende sanitarie pubbliche – in sostanza monadi – sulla considerazione di aspetti sistemici di prevenzione primaria e clinici rivolti alla tutela della salute cittadino. Si tratta di esiti fallimentari (inconfessati e inconfessabili) del modello bocconiano di sanità. Esso denuncia altre cause della crisi e propone rimedi che scardinano via via il SSN. Per esempio, il citato razionamento dei servizi deciso dai manager delle singole aziende di cui si compone il SSR.

Sono i primi supporter della privatizzazione e sembrano sostenere – non in modo del tutto esplicito – l’autonomia differenziata, sia in Lombardia sia in Emilia Romagna (per citare le regioni in cui da decenni sono i consulenti dei rispettivi SSR). Proposta che in sanità significa considerare positivamente il turismo sanitario (ricordo gli accorati appelli di un ricercatore del Cergas-Bocconi al telegiornale Rai della Lombardia per un posizionamento strategico della sanità lombarda tale da incentivare la forza di attrazione dei pazienti del resto del Paese e non solo). Come si chiama tutto questo se non “aiutare a sviluppare una visione e una pratica della sanità ‘colonizzatrice’ e anti SSN”?

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