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di Enzo FERRARA


ABSTRACT

Il documento presenta una piattaforma programmatica articolata in sette punti elaborata dalla Rete Europea “La salute non è in vendita” per contrastare la commercializzazione dei sistemi sanitari europei. Il testo analizza criticamente il ruolo delle istituzioni europee nella trasformazione dei sistemi sanitari nazionali, evidenziando come le politiche di austerità imposte attraverso il semestre europeo abbiano favorito processi di privatizzazione, mercificazione e finanziarizzazione della sanità. Vengono denunciate le diverse forme di deriva commerciale (subappalti, partenariati pubblico-privati, sviluppo delle assicurazioni private) e le loro conseguenze in termini di accessibilità alle cure, sia economica che territoriale e temporale. Il documento affronta inoltre temi cruciali quali la necessità di una democrazia partecipativa in sanità, il riconoscimento dei determinanti sociali della salute, la riforma della politica farmaceutica europea dominata dalle multinazionali, e la crisi del personale sanitario aggravata dalla libera circolazione che penalizza i paesi più poveri. La piattaforma propone alternative concrete basate su finanziamento pubblico adeguato, protezione sociale universale, accessibilità equa, partecipazione democratica e solidarietà tra Stati membri.

PAROLE CHIAVE

  1. Commercializzazione sanitaria
  2. Privatizzazione sanità
  3. Rete europea salute
  4. Politica farmaceutica
  5. Democrazia sanitaria
  6. Determinanti sociali salute
  7. Accessibilità cure
  8. Personale sanitario
  9. Protezione sociale universale
  10. Austerità europea

Questo numero di Medicina Democratica si sofferma sullo stato di salute dei servizi sanitari e assistenziali in Europa, in un periodo in cui i principi e valori fondanti dell’Unione Europea (libertà, democrazia, uguaglianza e stato di diritto, promozione della pace e della stabilità) non godono di gran sostegno né di buona salute, così come accade al territorio e al benessere delle popolazioni che la costituiscono.

Dei 720 parlamentari eletti a Bruxelles e Strasburgo nel luglio 2024 per la nona legislatura UE un quinto è costituito da sovranisti e separatisti. La maggioranza parlamentare è di centrodestra ma la presidente Ursula von der Leyen, dell’Unione Cristiano Democratica tedesca, è stata riconfermata grazie all’unione di Verdi, Socialisti, Liberali e Popolari, senza i voti del maggior partito italiano, Fratelli d’Italia, che ha preferito allinearsi ai “patrioti” e all’estrema destra. Ursula von der Leyen è stata ministra della difesa in Germania, vicina alle multinazionali delle armi e del farmaco – è attualmente indagata per aver cancellato comunicazioni legate al contratto UE con Pfizer ai tempi del Covid, stipulato durante il suo precedente mandato (dello strapotere di Big Pharma, scrive qui Vittorio Agnoletto in Farmaci, vaccini e brevetti. Big Pharma detta la linea, la politica esegue) – e prima della riconferma ai vertici UE era candidata per il ruolo di segretario generale della Nato allo scadere del mandato di Jens Stoltenberg. Sostiene politiche atlantiste e di sostegno agli armamenti degli alleati UE per i conflitti in corso in Ucraina e Medio Oriente.

Per la tutela dell’ambiente e del lavoro, la linea UE è indicata nel rapporto commissionato a Mario Draghi nel settembre 2024 (The future of European competitiveness), che prevede massicci investimenti per la difesa e l’industria delle armi e il mantenimento dello status quo per inquinanti pesanti, come gli PFAS considerati da Draghi strategici e “non sostituibili”, nonostante la loro cancerogenicità. Mentre la scienza afferma che l’igiene preventiva va focalizzata non solo sui cancerogeni ma anche sugli inibitori dei processi rigenerativi naturali (The global epidemic of early-onset cancer: nature, nurture, or both? Ogino, S. et al., Annals of Oncology, September 16, 2024), ancora prevale nell’UE il motto Thatcheriano “There is no alternative” (al capitalismo liberista). A pagarne le conseguenze è la salute collettiva: non stupisce che si stia verificando su scala mondiale un aumento d’incidenza delle malattie tumorali in giovane età denunciato da tutte le agenzie internazionali (Differences in cancer rates among adults born between 1920 and 1990 in the USA: an analysis of population-based cancer registry data, Sung, Hyuna et al., The Lancet Public Health, 9 (8), e583–e593).

Di fronte alla complessità degli scenari sulla guerra, il clima, le risorse, l’economia e le migrazioni, predominano il ragionamento semplicistico (guidato dal pensiero scientifico riduzionista), la fiducia nel modello liberista – entro cui le masse inglobate nelle mega-macchine social del Finanzcapitalismo (Luciano Gallino, Einaudi, Torino 2011) diventano componenti della rendita finanziaria – che vede la guerra come occasione di produzione industriale, assieme all’entusiasmo del progresso tecnico che cerca soluzioni nel nucleare e nell’aerospazio. Sembra confermato, non solo per la nostra penisola, quanto Piero Bassetti, il primo presidente della Lombardia, affermò nel 1969 alla camera di Commercio di Milano: “L’Italia è un paese centauro: ha i piedi nel sottosviluppo e la testa nell’ipersviluppo”.

Questo è il quadro di riferimenti entro cui leggiamo l’eccezionale congiuntura di crisi e misfatti che abbiamo di fronte e che devono essere colti non separatamente ma nel loro insieme, contemplando anche i modelli di pensiero che sono “causa delle cause”. Riprendiamo il discorso sullo stato sociale, la prevenzione e gli scopi della medicina iniziato in Italia e nell’UE nel secondo dopoguerra quando era ancora incisa nelle coscienze l’impossibilità di conciliare statuti democratici e partecipativi con il militarismo e l’esaltazione dell’industria bellica. Il “ripudio della guerra” sancito dall’art.11 della Costituzione, nacque da un rigetto – un ripudio, appunto – del modo di pensare il mondo e la società che avevano portato ai conflitti mondiali.

L’ANTIFASCISMO COME RICOSTRUZIONE SOCIALE

Solo se si intende la lotta antifascista per quel che essa è stata in maggior misura nel nostro Paese – una continua serie di atti di ribellione, boicottaggio e disobbedienza, frutto di scelte politiche e culturali maturate ben prima dell’8 settembre 1943 – si può comprendere la dimensione pacifista e internazionalista da essa assunta e mantenuta nei decenni successivi alla caduta del regime (si veda il capitolo dedicato alla “Pace Partigiana” in Guerra alla guerra, di Matteo Pucciarelli, Laterza Roma 2023). La storiografia tende a soffermarsi sulla guerra di liberazione e sulle sofferenze che l’accompagnarono in un paese devastato, occupato dai nazifascisti mentre gli alleati sbarcavano in Sicilia e a Napoli. Tuttavia la lotta partigiana va collocata entro il più vasto quadro di una resistenza nonviolenta: gli scritti di Piero Gobetti antecedenti la marcia su Roma, il rifiuto d’iscrizione al partito fascista di tantissimi cittadini e insegnanti – anche se si ricorda solo il gesto di pochissimi professori universitari – la diserzione dei reduci di Russia dopo il ritorno a casa. “È un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no. Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato” – ha scritto la storica Anna Brava in La conta dei salvati (Laterza, Roma 2013), aggiungendo che “si parla e si scrive molto di guerre, eccidi e violenze, ma non saremmo qui se qualcuno non avesse lavorato anche per la costruzione e il mantenimento della pace”. Questo è accaduto in Italia, nell’UE e con l’ONU nel secondo dopoguerra attraverso un percorso collettivo, dalla lotta di liberazione dal nazifascismo alla lotta per la realizzazione di tutto ciò che il nazifascismo negava: la pace attraverso il diritto internazionale, l’eguaglianza attraverso la Costituzione, i diritti all’istruzione, alla salute e all’abitazione grazie alla costruzione di uno stato sociale imperniato sui principi cardine della partecipazione, della fiscalità progressiva e della universalità di accesso e uniformità dei servizi. Questa evoluzione storica è testimoniata in Italia anche dall’iconografia delle tessere ANPI dedicate per esempio all’articolo 11 della Costituzione nel 1968 e 1988, al disarmo internazionale nel 1962 e 1982 e all’internazionalismo nel 1955 e 1989.

Non fu semplice mettere in atto in forma compiuta i dettami della Costituzione in tema di riconoscimento dei diritti personali e collettivi. Ogni loro avanzamento è stato frutto di lotte pluridecennali e ogni conquista è sempre messa a repentaglio da visioni elitarie frammiste a interessi non solidaristi. Si trattò di conquiste collettive raggiunte anche per controreazione e come antidoto contro ogni possibile nostalgia reazionaria, perché – come ricorda Jacques Sémelin in Senz’armi di fronte a Hitler (Edizioni Sonda, Torino 1993) – prima ancora della distruzione provocata dalla violenza della seconda guerra mondiale, delle deportazioni e della repressione su scala continentale, il principale risultato “sociale” del nazifascismo fu la cancellazione sistematica in Germania e in Italia di ogni forma di associazionismo mutualistico, politico o sindacale, sostituiti da loro parodie: strutture assistenziali fallimentari di stampo razzista, gerarchico e paternalista. La funzione che il fascismo svolse nella politica interna fu precisa e univoca solo contro le organizzazioni operaie. Su tutti gli altri elementi ideologici ebbe il sopravvento l’antisocialismo e la principale conseguenza dell’ascesa al potere del fascismo fu la distruzione dalle fondamenta di tutte le istituzioni realizzate nel corso di mezzo secolo dal movimento operaio per ristabilire il controllo esclusivo dei padroni sulla disponibilità materiale e sulla docilità politica della manodopera. Per dirla in breve: l’antifascismo si realizzò compiutamente in Italia dopo la guerra, con la ricostruzione democratica e partecipata dello stato sociale, che prese avvio con la lotta di liberazione e a cui si dedicarono moltissimi ex partigiani – come Ivar Oddone (il comandante Kim in Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino), Gastone Marri e Giulio Maccacaro.

LA COSTRUZIONE SOCIALE COME ANTIFASCISMO

Fu paternalista anche l’approccio immaginato dal sociologo ed economista inglese William Beveridge alla costruzione del Welfare State nel suo rapporto sulla “Sicurezza sociale e i servizi connessi” ideato nel 1942 a Londra sotto i bombardamenti tedeschi – qui ripreso e confrontato anche con il modello di stato sociale della Prussia di Bismarck da Edoardo Turi che riassume le competenze UE sui temi della salute in Salute e sanità nell’Unione Europea (UE) tra mutualità, assicurazioni sanitarie, servizi a diretta produzione pubblica e mutualismo. Quali movimenti per la salute? Tuttavia, nonostante non costituisse un’ipotesi di costruzione dal basso delle relazioni cardine di un sistema sociale, il rapporto Beveridge individuava i mali principali che minano i rapporti nelle comunità umane – bisogno, malattia, ignoranza, squallore e ozio – riconoscendoli non come colpe intrinseche al carattere dell’individuo o al gruppo sociale svantaggiato, ma come risultato di politiche non compiutamente progressiste e comprensive dell’interesse collettivo. Inoltre, seppure calato dall’alto, lo stato sociale inglese prevedeva non solo assistenzialismo compassionevole ma anche compartecipazione, in cooperazione, fra l’individuo “bisognoso” e l’istituzione che garantiva servizio e contributi per il suo sostegno senza “soffocare” altre opportunità: istinti di responsabilizzazione e incentivi capaci di sollevare ciascuno fino a potergli permettere di assicurare in autonomia per sé e la propria comunità più di quel minimo che lo stato può e deve garantire.

Questa visione, insoddisfacente perché non prevede di incidere sulle “cause delle cause” – i fattori di genesi delle diseguaglianze che portano alla povertà e alla miseria – permette comunque sviluppi in uno schema di pensiero razionale per progressive correzioni del sistema economico-sociale. Il principio base è il riconoscimento dei diritti e degli interessi appartenenti a tutte le componenti sociali in gioco, un riordinamento valoriale di questi e la scelta di risolvere gli eventuali conflitti sociali emersi entro i confini del confronto democratico, per il raggiungimento di equilibri che permettano al sistema di funzionare ed evolvere. L’ammissione del conflitto all’interno del sistema sociale non va intesa in senso separativo, ma come capacità di lettura della realtà integrata con le sue contraddizioni e di responsabilizzazione di chi si assume il compito di risolverlo attraverso la mediazione.

All’opposto di questa visione è l’ordinamento autoritario che in tutte le sue forme si basa su principi di superiorità (etnica, culturale, economica, militare) di una componente sociale rispetto a tutte le altre. La disumanizzazione di ogni nemico, la ricerca di coercizioni invece di equilibri per la soluzione delle controversie derivano con il tempo verso forme conflittuali sempre più violente – al contrario del processo di composizione nonviolenta dei conflitti – e inevitabilmente, quando si estendono a livello internazionale, sfociano in guerra. La capacità di sviluppare un’idea dell’avversario non come nemico ma come essere umano – sovente solo più sciagurato più di noi – è anch’essa un passaggio fondamentale del pensiero antifascista che contempla un percorso di umanizzazione e uno sforzo di comprensione delle ragioni di chiunque si fronteggi in un conflitto.

Aggiungiamo l’ammonimento a non illudersi che la deriva autoritaria possa essere circoscritta arginando l’ideologia della comunità popolare, nazionale o etnica, “perché questa in realtà ha il compito precipuo di mascherare e negare i contrasti sociali e di spacciare gli interessi della classe dominante per quelli della comunità intera” (Renato Solmi, L’ideologia fascista di Reinhard Kühnl, Lo Straniero, 193, 2016).

Temiamo come superstizioni le rinnovate pretese culturali delle pratiche militari: l’esaltazione della tecnologia bellica in cui confluiscono e si integrano derive scientifiche, un’infantile visione della realtà, l’interesse capitalistico-finanziario, l’esaltazione gerarchica del sistema sociale. Dubitiamo dei progetti “educativi” dell’esercito nelle scuole: le visite scolastiche nelle caserme dove s’insegnano l’alzabandiera, le marce e il cameratismo – invece di parlare di salute, sicurezza e prevenzione, come suggerisce Rino Ermini (Scuola luogo cruciale, per la salute, la sicurezza e la prevenzione). Ci chiediamo quale filologia sostenga queste pratiche spacciandole come percorso pedagogico-educativo. Ci indignano iniziative come l’istituzione della “Giornata della memoria e del sacrificio degli alpini” che glorifica un’immane strage di giovani italiani, russi e tedeschi in una guerra d’invasione e che andrebbe studiata come momento di svolta e presa di coscienza del popolo italiano verso la redenzione dal nazifascismo. “Ricordare e raccontare, parole d’ordine che cominciano a diventare false, perché ognuno le adopera per tirare l’acqua al proprio mulino (…) le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti” scriveva Nuto Revelli in Mai Tardi (Einaudi, Torino 1967).

COME CONTRAPPORSI ALLA DERIVA

In contrapposizione a queste forme di deriva politica e sociale vanno difese le risposte scientifiche, culturali e politiche aperte ai valori della collettività e del solidarismo, fra cui il già citato rapporto Beveridge prima elaborazione compiuta dello stato sociale. Ricordiamo il Preambolo della Costituzione dell’UNESCO secondo cui “l’ampia diffusione della cultura e l’educazione dell’umanità alla giustizia, alla libertà e alla pace sono indispensabili alla dignità dell’uomo e costituiscono un dovere sacro che tutte le nazioni devono adempiere in uno spirito di assistenza e sollecitudine reciproca”. Per quanto riguarda l’UE – nonostante l’ingiustificabile disapplicazione del principio di solidarietà nei settori dell’asilo, delle frontiere esterne e dell’immigrazione – ricordiamo che già la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 affermava che “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da relazioni concrete che creino innanzitutto una solidarietà di fatto”, e sottolineiamo il ruolo assunto dalla Corte di Giustizia Europea in termini di tutela del diritto personale e collettivo. In Italia, nel 1970 lo Statuto dei Lavoratori sancì la libertà e dignità del lavoro e dell’attività sindacale; nel 1978 con la legge n. 833 istitutiva il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) si indicarono le priorità per la tutela di salute e dignità dei luoghi di vita e di lavoro attraverso il primato della partecipazione democratica e delle attività di prevenzione.

Ricordiamo cosa è accaduto successivamente. Il SSN finanziato dalla fiscalità progressiva e basato sui principi di universalità (diritto universale alle prestazioni sanitarie), eguaglianza (nell’accesso al servizio senza alcuna distinzione individuale, sociale ed economica) ed equità (del servizio assistenziale erogato in funzione del bisogno di salute) garantì la libertà di scelta del luogo di cura, il diritto a essere informati su malattia e terapia, a essere “presi in carico” dal medico o dall’équipe sanitaria per tutto il percorso terapeutico, alla riservatezza e – affatto secondario – il dovere della programmazione sanitaria di anteporre la tutela della salute dei cittadini a tutte le altre scelte, compatibilmente alle risorse economiche disponibili. Il principio di universalità della fruizione garantiva unità al sistema e uguaglianza ai cittadini. Sarebbe venuto meno se si fosse data possibilità di presidi in alternativa al SSN. Eppure, già la “riforma sanitaria” del 1992 (governo Amato) mirava a rompere i principi di universalità e uguaglianza non limitandosi a introdurre la trasformazione delle Unità sanitarie locali (USL) in Aziende sanitarie locali (ASL) e a spostare la centralità della gestione alle Regioni, ma prevedendo con il famigerato articolo 9 sulle Forme differenziate di assistenza, la creazione di un sistema sanitario parallelo e alternativo al SSN, in mano alle assicurazioni e alle mutue volontarie. La riforma successiva del 1993 (governo Ciampi) tentò di ristabilire lo spirito originario del SSN con il DL N. 517/93 che cancellò le Forme differenziate di assistenza sostituendole con Fondi integrativi sanitari finalizzati a fornire prestazioni aggiuntive rispetto a quelle assicurate dal SSN, per evitare che si rompesse il principio di universalità della fruizione. Altra tappa evolutiva del SSN fu il DL 229 del 19 giugno 1999, “riforma sanitaria ter” o decreto Bindi, volto al consolidamento del processo di aziendalizzazione e qualificazione dell’assistenza, seppure tentando di rafforzare il ruolo centrale e strategico del SSN. Il fenomeno della regionalizzazione del SSN avviato nel 1992 ha trovato piena attuazione con la riforma costituzionale del 2001, modificativa del titolo V della Costituzione. Questa, recepì le istanze sottese al principio di sussidiarietà, rinnovando il precedente riparto delle competenze ma in un sistema caratterizzato da un pluralismo di centri di potere, ampliando il ruolo delle amministrazioni locali. Nonostante l’esperienza del Covid, che ha tragicamente dimostrato l’importanza di servizi sanitari coordinati ed efficienti in ogni loro estensione anche transnazionale, oggi in Italia almeno il 60% dei fondi pubblici per la sanità finisce in mano ai privati e la grande maggioranza delle strutture che si occupano di malattie croniche sono private.

GLI SPAZI PER LA PARTECIPAZIONE FRA PRIVATO, DIFFERENZIAZIONI E AUTONOMIE

Per creare un argine a tutte queste derive, riprendiamo il discorso partendo dall’Europa e continuiamo il dibattito sulla validità dell’industrializzazione e del privato in medicina per raffrontare i loro contenuti proposizionali con la realtà di tutta la filiera sanitaria: prevenzione, diagnosi, cura, disponibilità e uso di farmaci. Un’analisi ampia per indagare gli esiti del vizioso rapporto tra pubblico e privato in sanità è necessaria per verificare le tesi pro privatizzazione auspicate in sostituzione del soggetto pubblico, con formule e pratiche che esaltano la funzione del privato senza mai indagarne né l’efficacia né l’appropriatezza per la tutela della salute dei singoli e della collettività. Molte sono le proposizioni prodotte per tale scopo non solo da chi se ne avvantaggia, tuttavia sono anche molti i segnali che mettono in discussione le teorie di sostegno alla privatizzazione e che dimostrano che privatizzare non solo non risponde ai principi costituzionali ma soprattutto non li soddisfa e conduce a servizi che si distanziano dai principi di solidarietà e partecipazione anche a tutela della salute prefigurati fin dagli anni della resistenza.

Dopo l’appello Ci sarà pure un giudice a Berlino, che precede questo editoriale – per sostenere Medicina Democratica, costretta a restituire gli importi (le nostre spese legali sostenute e il risarcimento), riconosciuti inizialmente dalla Corte di Appello di Firenze, alle Ferrovie dello Stato nel processo sulla strage di Viareggio, non perché non sia ammessa la colpevolezza della controparte ma perché dopo anni di udienze è stato disconosciuto “ex post” a Medicina Democratica il diritto alla costituzione di parte civile – apre il dossier La salute prima del mercato. Cambiare l’Europa, a cura della rete europea “La salute non è in vendita”. Proseguono Angelo Barbato, del Forum per il Diritto alla salute, ragionando sui temi Per una politica europea del farmaco al servizio del diritto alla salute; Carmen Esbrí, portavoce di Mareas Blancas, di cui riportiamo la trascrizione dell’intervento sul modello sanitario spagnolo tenuto durante l’assemblea plenaria dell’11 ottobre 2024 nell’ambito delle iniziative NoG7 Salute ad Ancona (9-11 ottobre 2024). Queste hanno visto inoltre il contributo della campagna “Not On My Body” che ha presentato la “Carta di Ancona” qui riportata assieme alla Proposta per la Dichiarazione di Ancona 2024 “Assistenza sanitaria e Sanità Pubblica per Tutti” curata della Rete europea “La salute non è in vendita”. A queste prospettive si affianca la Lettera aperta al Presidente della Regione Campania a cura del Coordinamento campano per il diritto alla salute che esamina l’offerta sanitaria nel napoletano, con preoccupazione anche per i possibili esiti dell’autonomia differenziata.

Nel complesso, le idee sul ruolo del privato nella gestione della salute pubblica si rivelano soprattutto come un’esternalità ideologica al mondo della salute capace di esercitare una costrizione culturale, a prescindere dai deludenti risultati. Lo conferma Maria Elisa Sartor, docente di Scienze dell’organizzazione, delle configurazioni e dei processi di trasformazione dei sistemi sanitari e autrice di La privatizzazione della sanità lombarda dal 1995 al Covid-19: Un’analisi critica (Amazon, 2021) che esamina I pericoli della differenziazione in sanità osservando come l’idea dell’autonomia regionale differenziata sia nata in Lombardia da élites intenzionate a rivendicare due forme di orgoglio: quello secessionista e quello plutocratico che siamo chiamati a contrastare.

La tutela della salute sul lavoro è un altro tema su cui l’Europa, attraverso l’OSHA (Occupational Safety and Health Administration) potrebbe tentare qualche aggregazione, selezionando fra i modelli nazionali quelli con maggior efficienza. Secondo Eurostat, fra i paesi UE più popolosi, la Francia è lo stato con più decessi sul lavoro in rapporto alla popolazione, mentre l’Italia pur avendo il maggior numero assoluto di morti bianche è al 12° posto, Svezia e Germania hanno il numero più basso di vittime sul lavoro. Marco Caldiroli approfondisce il tema in Sicurezza sul lavoro in Europa, modelli “ispettivi” differenti per una prevenzione condivisa e ugualitaria? Riprendiamo anche l’intervento di Yvonne Waterman (avvocata specializzato in malattie professionali da amianto e European Asbestos Forum) che al convegno di Roma Amianto e mesotelioma: tutti innocenti? del 13 maggio 2022, spiegò come funziona il Nesso di causalità tra l’esposizione sul lavoro e una malattia professionale in Olanda. Chiude questa pagina tematica l’avvocato Alessandro Rombolà con Alcune riflessioni su una recente vicenda sulla vigilanza su luoghi di lavoro.

Laura Valsecchi, infine, presenta Tutela sì, tutela no: gli istituti giuridici per le persone prive di autonomia: opportunità, criticità e proposte, volume edito dall’Unione per la Promozione Sociale OdV, Collana “Strumenti” della rivista “Prospettive. I nostri diritti sanitari e sociali” (Ottobre 2024).

Chiude il numero una poesia di Gabriella Bertini, Noi andremo avanti.

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